




Nell'autunno di 22 anni fa, l'8 e il 9 novembre del 1987 gli italiani dissero no al nucleare come forma di approvvigionamento energetico.
Questo il senso dei tre quesiti del referendum sottoposto agli elettori (e le percentuali):
80,6% SI' 19,4% NO
79,7% SI' 20,3% NO
Con l’approvazione del ddl sicurezza di due giorni fa al Senato l’Italia è tornata ufficialmente, dopo 22 anni, al nucleare. I numeri sono stati schiaccianti: 154 voti a favore, un contrario, un astenuto. Compatto il centrodestra, che ha trovato l’appoggio anche dell’Udc. Partito democratico e Italia dei Valori hanno abbandonato l’aula dopo aver annunciato il loro «no». Bene, si fa per dire. Un bel ritorno al passato, anche in questo campo, era proprio quello che ci voleva.Ora il governo ha sei mesi di tempo per riempire di contenuti la delega, piuttosto ampia e fumosa, che si è «meritata» dal parlamento. In primis, dovrà indicare i siti adatti alle nuove centrali, «piantare le bandierine» sull’italica cartina. Un rebus di non facile soluzione. A partire dai tempi, sei mesi appunto. Vuol dire che Berlusconi dovrà annunciare entro metà gennaio chi saranno i «fortunati» che si beccheranno una nuova centrale sul loro territorio. A meno di due mesi dalle elezioni regionali, potrebbe essere un boomerang per il Cavaliere, che pagherebbe in termini elettorali la scelta. L’opposizione al nucleare, dopo la schiacciantissima vittoria del fronte del No al referendum del 1987, dovuta anche all’onda emotiva della tragedia di Chernobyl, è ancora viva nel nostro paese. Sono migliaia i comuni «denuclearizzati» sul territorio italiano. Vuol dire che nei loro confini, oltre a non costruire siti, non potrebbero nemmeno passare autoveicoli che trasportano scorie. Non avendo questa dizione «dignità giuridica» è facile immaginare che, di fronte a «interessi superiori» (leggasi business), l’esecutivo se ne «fotterà» allegramente. Ma a «remare contro» la scelta dell’esecutivo c’è, soprattutto, la conformazione fisico-geologica del nostro paese.
Sono ben pochi i siti adatti alla costruzione di una centrale nucleare. Una grande parte del territorio italiano non è adatta perché area sismica. Secondo limite: una centrale ha bisogno di un’ingente quantità d’acqua. La portata dei nostri fiumi, pochi esclusi, non è sufficiente. Quindi, il posto più adatto dovrebbe essere in riva o nelle vicinanze del mare. E di un porto, e anche grande, perché una parte dei macchinari deve essere importato via mare. Posti del genere, in Italia, sono ben pochi e, nonostante il governo mantenga il «segreto di stato» sui siti presumibilmente già individuati, basta un semplice controllo incrociato delle caratteristiche necessarie per mettere in allarme le popolazioni delle aree individuate e provocare le giuste, scontate proteste dei cittadini.Dal sito del SOLE24ORE. Di Federico Rendina (11/07/2009):Occhio ai siti dove piazzare le nuove centrali atomiche italiane. Con tutti i problemi del caso. Amplificati, come da molti temuto, dalla marcia indietro delle due sole amministrazioni regionali che avevano espresso la disponibilità a favorire il rinascimento dell'atomo elettrico italiano. Sia Giancarlo Galan (Veneto) che Raffaele Lombardo (Sicilia) confermano la nuova e più prudente linea strategica. Il Veneto ne parlerà solo dopo una dettagliata anamnesi tecnico-scientifica e la Sicilia si appellerà in ogni caso ad un referendum popolare. Come a dire: tempi lunghissimi anche nelle due regioni disponibili semplicemente a parlarne.
Ma ecco emergere un ostacolo ancora più duro per l'esito del rinascimento atomico promesso con la legge "sviluppo" varata ieri l'altro: la gestione delle scorie già prodotte dalla nostra attività nucleare. Anche questo tema dovrebbe essere chiarito – dispone la legge delega appena approvata – entro i sei mesi nei quali il governo dovrà definire i criteri per costruire le centrali sul territorio e possibilmente anche le prime bandierine da piazzare sulla carta geografica.
Le scorie imbarazzano davvero. Anche perché ne abbiamo in proporzioni tutt'altro che trascurabili: quelle ereditate dall'attività nucleare sospesa dopo il referendum del 1987, quelle frutto dello smantellamento delle nostre quattro vecchie centrali atomiche di Trino, Caorso, Latina e Garigliano e quelle (che da sole non costituirebbero un gran problema) prodotte dalla normale attività medica e scientifica del paese.
Bene. Anzi male. Perché l'Italia, come stranoto, non riesce neanche a gestire le scorie che comunque ha. Ci dovrebbe pensare innanzitutto la Sogin, creata nel 1999 e paralizzata per lunghi anni da un doppio problema, interno ed esterno. Quello interno riguardava la sua gestione, considerata sciagurata da tutti gli osservatori ufficiali e ufficiosi: gli analisti, le commissioni parlamentari, la Corte dei Conti, l'Authority per l'energia.
Sulla macchina inefficiente, clientelare e mangiasoldi della Sogin si è detto, negli anni, tutto. Per sintetizzare: fino al 2006 la Sogin ha speso il 38% del suo budget di gestione per svolgere solo il 6% delle sue attività programmate e imposte. Piccola, ma largamente insufficiente giustificazione: il paese, inteso come classe politica che il paese lo amministra, non è riuscito a risolvere il problema principale, ovvero l'individuazione dei criteri tecnici e logistici per immagazzinare, trattare e possibilmente "disattivare" le scorie nucleari.
Ed ecco che l'Italia, paese che ha rinunciato al nucleare 22 anni fa e vorrebbe ricominciare ad usarlo, si ritrova tutt'oggi con la bellezza di
- 55 mila metri cubi di scorie radioattive prodotte dalle sue vecchie centrali, a cui si aggiungono
- 25mila metri cubi di detriti parimenti pericolosi prodotti dal loro smantellamento. Ci sono poi
- 500 tonnellate l'anno di rifiuti prodotti dall'attività medica e scientifica. Per non parlare di
- qualche tonnellata di scorie tra le più pericolose, parcheggiate (a caro prezzo) in Francia e in Inghilterra per un loro parziale riprocessamento ma con l'impegno di riprendercele entro una decina di anni.
Un'eredità imbarazzante, vecchia e nuova. A gestirla un po' meglio ci abbiamo provato più volte, con clamorosi passi falsi, come quello dell'individuazione, era il 2003, del sito geologico di Scanzano Ionico: invece di seppellire in eterno le scorie il progetto è stato prontamente seppellito dalle critiche dei molti esperti e dal no a furor di popolo. Ora ci si riproverà – dice il Governo – con uno o più siti di superficie. Intanto le nostre scorie galleggiano alla bene e meglio nei siti dove erano prodotte quando eravamo nucleari: nelle vecchie centrali e nei centri di ricerca e stoccaggio ad esse collegate.
Nel frattempo, dal 2007, la sgangherata macchina della Sogin ha preso improvvisamente vigore, sotto la guida dell'ex dirigente dell'Enel Massimo Romano, nonostante la mancanza di una vera rotta sulla gestione definitiva dei rifiuti. Il rapporto tra spesa e attività svolta si è invertito: l'anno scorso si è chiuso con attività di decommissioning per 46,6 milioni di euro a fronte di spese di funzionamento ridotte a 31,8 milioni.
Peccato che la Sogin abbia proprio ora il destino segnato. Il Ddl "sviluppo" ne decreta lo smebramento e dunque la scomparsa, per conferire la crema delle attività ad una nuova società pubblico-privata che in nome del rinascimento nucleare dovrebbe mettere insieme i suoi migliori operatori con le imprese nucleari italiane capeggiate, si dice, da Ansaldo Energia. Se questa sia effettivamente la soluzione migliore il dibattito è aperto. Sta si fatto che lo smantellamento di quel che aveva cominciato finalmente a funzionare rappresenta un'ulteriore incognita in una sfida già difficilissima.
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